Il mancato funzionamento delle fotocellule di un dispositivo
Una sentenza della Corte di Cassazione parla di un infortunio causato dalla disattivazione delle fotocellule che comandano l'arresto immediato di un macchinario.
In presenza di una neutralizzazione correlata ad una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni in materia di sicurezza, “non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto omesso”, solo laddove “non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi” (Sentenza n. 32507 del 16 aprile 2019).
A ricordarlo e a parlare anche del rapporto tra i doveri del datore di lavoro, la “scorretta prassi lavorativa” e i “compiti di vigilanza del preposto” è una sentenza della Cassazione del 2020 – la Sentenza n. 54 del 03 gennaio 2020 – che ha riguardato la disattivazione delle fotocellule che comandano l'arresto di un macchinario e l'omissione dei “doveri tipici del datore di lavoro”.
Con riferimento alla sentenza, parleremo:
La ricostruzione dell’evento e i motivi del ricorso
Le indicazioni della Cassazione
La ricostruzione dell’evento e i motivi del ricorso
La pronuncia della Cassazione segnala che la Corte di Appello di Firenze “ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Siena con la quale G.E. è stato ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 590 cod. pen., per aver cagionato per colpa lesioni personali a D.B., commettendo il fatto con violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni e per imprudenza, imperizia, negligenza”.
“Secondo l'accertamento condotto nei gradi di merito, D.B., lavoratore alle dipendenze della società X s.r.l., “della quale era consigliere delegato G.E., stava trasferendo delle lastre di travertino dalla levigatrice alla stuccatrice quando, a causa del mancato funzionamento delle fotocellule presenti sull'impianto, rimaneva incastrato tra il carrello mobile e la rulliera fissa, riportando lesioni personali dalle quali derivava una malattia guarita in oltre quaranta giorni”.
In opposizione a questo provvedimento, ricorre per cassazione il G.E., a mezzo del difensore di fiducia, “lamentando con un primo motivo la violazione di legge in relazione agli artt. 2, 16, 18 e 299 del d.lgs. n. 81/2008”.
La Corte di Appello “ha ritenuto che il G.E. ricoprisse una posizione di garanzia nonostante la presenza all'interno dell'organizzazione aziendale di altre figure specificamente preposte e l'assenza di qualsiasi potere, anche di fatto, in materia di vigilanza e sicurezza dei lavoratori. La Corte di Appello ha ritenuto la responsabilità del G.E. perché consigliere delegato e in quanto indicato nel documento di valutazione dei rischi come referente; ma tale documento non attribuisce alcuna qualifica tipizzata dal legislatore. Egli risulta indicato nel DVR come dirigente con funzioni di 'responsabile e commerciale e produzione', mentre altra persona, F.F., viene qualificato come preposto, con funzioni di capo cantiere”.
Il ricorso denota che non troverebbe applicazione “il principio del cumulo delle responsabilità in capo ai vertici dell'azienda quando esistente una delega esplicita o implicita della posizione di garanzia; delega che nella specie era stata conferita al F.F., che nella qualità di preposto era garante dell'obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro”.
Un secondo motivo di ricorso “denuncia il vizio della motivazione perché la Corte di Appello ha ritenuto che il G.E. avesse di fatto esercitato le funzioni di responsabile della sicurezza senza però che taluno abbia riferito circostanze dalle quali desumere l'esercizio di un potere di fatto”. E un terzo motivo lamenta la “illogicità della motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche, fondato sull'elevato grado della colpa”.
Le indicazioni della Cassazione
La Cassazione indica che il primo motivo è “manifestamente infondato”.
Nella fatti specie si sottolinea che lo stesso ricorrente “espone di aver rivestito la qualifica di consigliere delegato”. Ed è noto che “secondo la giurisprudenza di questa Corte nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 8118 del 01/02/2017 – dep. 20/02/2017, Ottavi, Rv. 26913301)”
Il ricorso ricorda anche “una delega, della cui esistenza non è fatta menzione nelle sentenze di merito. E, d'altronde, appare evidente che nel ricorso si confonde l'attribuzione di ruoli all'interno dell'organigramma aziendale con la delega delle funzioni prevenzionistiche di cui all'art. 16 d.lgs. n. 81/2008. Ma la prima, quando associata alla effettiva titolarità di pertinenti poteri, fonda la posizione gestoria a titolo originario; la seconda comporta il trasferimento dal datore di lavoro ad altri di alcune sue specifiche e definite competenze e dei correlati poteri. La preposizione di un preposto non costituisce atto di delega in senso stretto; e d'altronde non sottrae il datore di lavoro ai propri obblighi di organizzazione e di vigilanza sulla osservanza delle procedure aziendali, anche da parte del preposto stesso”.
E la presenza di altri soggetti del rischio da lavoro “non costituisce di per sé ragione di esonero da responsabilità del datore di lavoro”.
Per quanto riguarda il caso trattato, “secondo la ricostruzione conforme delle sentenze di merito”, l'infortunio si è determinato “perché posta in essere una procedura di lavoro non conforme alle regole cautelari, in quanto erano state disattivate le fotocellule che comandavano l'arresto del macchinario ove il lavoratore fosse entrato nel loro campo di azione”. E la Corte di appello ha indicato che ciò “rispondeva ad una prassi che era tollerata dal G.E.”.
Trova applicazione il principio “secondo il quale, in tema di infortuni sul lavoro, in presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi (Sez. 4, n. 32507 del 16/04/2019 – dep. 22/07/2019, Romano, Rv. 27679702)”.
Inoltre si può dire, “che il G.E. non avesse esercitato in concreto le funzioni di vigilanza è al contempo ragione dell'addebito – perché proprio l'omissione dei doveri tipici del datore di lavoro aveva permesso l'ingenerarsi della scorretta prassi lavorativa – e circostanza irrilevante – ove si faccia riferimento ai compiti di vigilanza del preposto, la cui violazione si somma a quella datoriale e non la elide”.
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