Il Testo Unico prevede, con riferimento ai contenuti necessari del documento di valutazione dei rischi e in particolare alla “relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa”, che “la scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione” (art.28 c.2 lett.a) D.Lgs.81/08). La Relazione di accompagnamento al D.Lgs.106/2009 ha specificato a suo tempo che “la proposta di modifica del comma 2 dell’articolo 28 evidenzia che la scelta del come scrivere il documento è rimessa all’imprenditore, che si assume l’onere di redigere il documento nella maniera più efficace, senza dover seguire necessariamente un “formato” predefinito, come dovrebbe fare se si considera l’adempimento in parola solo da un punto di vista formale. Pertanto, in tal modo si sposta l’obiettivo in direzione dell’oggetto del documento di valutazione dei rischi, che è la pianificazione della gestione della sicurezza.” La sollecitazione proveniente dall’ordinamento giuridico e rivolta ai datori di lavoro e ai collaboratori che assistono quest’ultimo in ordine alla valutazione dei rischi – stando alla Relazione di accompagnamento del decreto correttivo – va dunque nella direzione di sollecitare una maggiore efficacia del DVR, identificato quale documento che ha ad oggetto la “pianificazione della gestione della sicurezza”, nonché un approccio che non sia meramente formalistico nella elaborazione del documento stesso. La giurisprudenza di legittimità sottolinea spesso, in relazione ai criteri con cui viene redatto il documento di valutazione dei rischi, questa esigenza di comprensibilità, efficacia e funzionalità ai fini delle azioni di prevenzione (nei termini su richiamati). Sul tema della comprensibilità, ad esempio, in Cassazione Penale, Sez.III, 27 luglio 2017 n. 37412 la Corte chiarisce che “lo scopo del documento di valutazione dei rischi, la cui redazione si applica a tutte le lavorazioni (cfr. Cass.Sez.3, Sentenza n.33567 del 04/07/2012) è quello di costituire un elemento concreto per la protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori in quanto in esso il datore di lavoro, dopo aver valutato i rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, specificando i criteri adottati per la valutazione stessa. Procede, ad individuare le misure di prevenzione e di protezione, e dei dispositivi di protezione individuale, conseguenti alla valutazione suddetta nonché a formulare il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento, nel tempo, dei livelli di sicurezza (cfr. Sez.3, Sentenza n.23968 del 2011).” E’ interessante il punto in cui la Cassazione richiama il fatto che, nel caso di specie, “il documento per la valutazione dei rischi redatto dal titolare della ditta fosse a tal punto incompleto e confuso da non consentire ai lavoratori di comprenderne il contenuto e quindi inidoneo a svolgere la sua funzione di spiegare i rischi specifici del lavoro e gli strumenti disposti per evitare che si possono realizzare.” Il tema dell’ inidoneità del documento di valutazione dei rischi a rappresentare un reale “strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione” è un tema che affonda le sue radici in tempi piuttosto risalenti, se si pensa che già sotto la vigenza dell’ormai abrogato decreto 626 la giurisprudenza da un lato faceva a più riprese emergere la frequente assenza di tale idoneità del DVR a fungere da strumento operativo (circostanza collegata al prevalere di un approccio meramente formalistico) e dall’altro richiamava l’attenzione sulle ricadute che tale approccio poteva generare a cascata in relazione alle conseguenti misure di tutela, ivi compresa la formazione. Sotto questo profilo, il pensiero corre alle parole di una nota sentenza del Tribunale di Milano (caso Galeazzi) che precisava a suo tempo i termini del rapporto intercorrente tra una valutazione dei rischi impostata in maniera solo formalistica e l’effettività della formazione e dell’informazione, derivandone in termini consequenziali le ricadute e le implicazioni concrete (Tribunale di Milano del 27 settembre 2002, che ha giudicato in merito all’incendio scoppiato nella camera iperbarica c.d.“verde” del medesimo Istituto Galeazzi). In questo caso, il Tribunale di Milano rilevava in premessa come “una corretta valutazione del rischio incendio doveva necessariamente prevedere l’elaborazione di misure preventive per ridurre la frequenza dell’accadimento, utilizzando strumenti di tipo tecnico/organizzativo, prevenzione oggettiva, e di tipo procedurale derivanti fondamentalmente da una adeguata informazione e formazione del personale, prevenzione soggettiva, nonché misure protettive finalizzate all’eliminazione dei rischi residui derivanti dall’attività preventiva.”E, dopo aver ricordato che “la formazione e l’informazione dei lavoratori e delle persone che frequentano a vario titolo un ambiente di lavoro (ad es. i pazienti) costituisce un obbligo fondamentale del datore di lavoro, in collaborazione con il servizio di prevenzione e protezione,  avente ad oggetto i rischi e le misure per prevenirli e per proteggersi dagli stessi”, concludeva che “giocoforza se tali rischi non sono stati valutati realmente, la prevenzione culturale (in)formativa non potrà mai conseguire il risultato effettivo di istruire i lavoratori e migliorare la loro attenzione”. Come a dire che presupposto per una effettiva e non formalistica attività di formazione e informazione è una effettiva, efficace e non formalistica attività di valutazione dei rischi, che, secondo il Tribunale di Milano, “consiste nell’attribuzione di un valore, un peso, una misura attraverso un’analisi tecnica, scientifica, organizzativa; pertanto non può considerarsi tale una mera osservazione dei luoghi di lavoro o una generica descrizione delle attività che vi si compiono”. Addirittura, secondo il Tribunale di Milano, una meramente formalistica valutazione dei rischi può essere considerata persino dannosa per coloro che operano in azienda, in quanto “l’adempimento astratto, formale, o generico dell’obbligo de quo può risultare addirittura ingannevole per i dirigenti, preposti, lavoratori, operatori esterni, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza etc. che ripongono un irrealistico affidamento sull’inesistenza o genericità di un rischio che invece è ben presente”. Pur non esaustivo, al tema della completezza del documento di valutazione dei rischi, citando una interessante sentenza (Cassazione Penale, Sez. IV, 23 gennaio 2008 n.3477) che si sofferma su un aspetto particolare legato alle misure di prevenzione e protezione da indicare nel DVR. La Corte chiarisce in questa interessante pronuncia che “nel contesto delle operazioni di valutazione dei rischi, che tengano conto delle peculiarità del caso concreto, è possibile che il datore di lavoro ‘prudente ed accorto’ percepisca la necessità di ricorrere ad accorgimenti per così dire ‘atipici’, in aggiunta a quelli ‘codificati’, sulla base di un autonomo giudizio di prevedibilità ed evitabilità che suggerisce una particolare regola comportamentale. In casi del genere, è lo stesso ‘garante’ DL ad avere, ai sensi dell’art.4, D.Lgs.n.626/1994 [ed ora art.28, D.Lgs.n.81/2008], il compito di ‘mettere per iscritto’ la regola cautelare, la cui trasgressione può fondare una responsabilità colposa: essa infatti deve (o quantomeno dovrebbe) essere ricavabile dal documento contenente la relazione circa la valutazione dei rischi e l’individuazione delle misure conseguenti”

RossellaCronaca  Il Testo Unico prevede, con riferimento ai contenuti necessari del documento di valutazione dei rischi e in particolare alla “relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa”, che “la scelta...